Dati: indagine statistica di approfondimento sul tema “Giovanni, lavoro e rappresentanza” nell’ambito del “Rapporto Giovanni” dell’Istituto Giuseppe Toniolo e in collaborazione con Fim Cisl. La rilevazione è stata condotta a febbraio 2017 su un campione di 2000 giovani dai 20 ai 34 anni. Ricerca a cura di Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e coordinatore scientifico Osservatorio Giovani, e Mauro Migliavacca, docente di Sociologia dell’Università di Genova.

Il lavoro che cambia e le aspettative delle nuove generazioni
Per i giovani intervistati il lavoro è messo in relazione sia a fattori materiali (uno strumento diretto a procurare reddito) che simbolici (un luogo di impegno personale e una modalità di autorealizzazione). La “dimensione economica” si è rafforzata durante la crisi economica non tanto in riferimento al “lavoro ideale”, ma come risposta adattiva alle difficoltà incontrate. La preoccupazione per uno stipendio adeguato ha così superato il desiderio di poter svolgere una attività che consenta di realizzarsi. Quello che oggi i giovani cercano è prima di tutto un lavoro che consenta loro di guadagnare abbastanza per trovarsi intrappolati in una lunga dipendenza dai genitori e un rinvio continuo nella progettazione del un proprio futuro. Alla “realizzazione nel lavoro non si rinuncia, ma viene sempre più spesso spostata dopo questo obiettivo. Il tipo di contratto passa in secondo piano: se il lavoro è ben remunerato e magari consente anche di realizzarsi, non è strettamente necessario che sia a tempo indeterminato. Quello che però i giovani vorrebbero è una flessibilità a proprio favore, che consenta ad essi di scegliere come crescere nella professione, anche cambiando lavoro, non invece difendersi dai rischi di un lavoro malpagato e incerto che porta a rinunce e a sottoutilizzo del capitale umano.
Esistono in ogni caso sensibili differenze di genere. Per i maschi (ancor più per i laureati) la realizzazione continua a mantenere il primo posto, mentre si sposta al terzo posto per le donne, che più dei maschi come ben noto, soffrono di condizioni di svantaggio rispetto alla remunerazione e cercano una maggiore stabilità nel contratto per poter investire poi anche sulle scelte familiari.
Se gli attuali giovani italiani, più che in passato, hanno necessità di aggiungere alla pubblica anche una pensione integrativa, sono però anche la generazione del dopoguerra che sperimenta maggiori incertezze occupazionali associate a reddito basso e discontinuo, con la conseguenza di rinviare continuamente autonomia, formazione di una propria famiglia, oltre che decisioni in ambito previdenziale.
Tra chi lavora si conferma il punto debole dello stipendio come aspetto da migliorare. Il rischio di precarietà porta anche a chiedere una maggiore stabilità lavorativa. Queste due preoccupazione fanno scivolare la crescita personale scivola al terzo posto.

Le nuove generazioni italiane si trovano di fronte non solo al lavoro che manca, ma anche al lavoro che cambia come conseguenza dell’impatto di tre grandi trasformazioni che possono essere indicate con tre “i”: Invecchiamento della popolazione, Immigrazione e Innovazione tecnologica. Secondo la maggioranza dei giovani intervistati tutte queste trasformazioni possono avere un impatto sul lavoro giovanile.
Il fattore di preoccupazione più importante è il protrarsi della permanenza al lavoro delle generazioni più anziane.  La preoccupazione per la concorrenza degli immigrati è infatti indicata da poco più della metà degli intervistati, mentre si sale a quasi tre su quattro per lo scarso ricambio rispetto ai posti occupati dai lavoratori maturi. Intermedia la posizione dell’impatto delle nuove tecnologie che preoccupa oltre il 60 per cento dei giovani.
Va precisato che chi è “molto” d’accordo con l’impatto negativo di questi fattori è solo una stretta minoranza (meno di un giovane su quattro). Ma molti sono quelli che sono “abbastanza” timorosi che ci possa essere un effetto negativo. In parte questo è conseguenza della scarsa informazione nel dibattito pubblico sul reale impatto di queste tre “i”, in parte deriva però anche dalla sfiducia nella classe dirigente, che porta i giovani a chiudersi in difesa e ad avere timore che le nuove generazioni più che essere aiutate a incontrare le opportunità dei cambiamenti siano in Italia troppo spesso lasciate sole a fronteggiare i rischi e a pagarne i costi.
Coerentemente con ciò, esiste un interessante legame con l’istruzione. Il timore per la concorrenza degli immigrati risulta pari al 64,4% per chi ha solo la scuola dell’obbligo e si dimezza (32,8%) tra i laureati. Rilevante, anche se un po’ più ridotta, la relazione del titolo di studio con la percezione del rischio di posti di lavoro persi a causa dei processi di automazione legati all’innovazione tecnologica: si passa dal 55,1% di persone abbastanza o molto preoccupate tra i laureati al 64,3% per chi ha titolo basso.
Il timore, invece, verso il ricambio generazionale bloccato in alcuni settori per l’estensione della permanenza al lavoro delle generazioni più anziane, risulta abbastanza traversale alle varie categorie sociali.

Forte è la convinzione, tra i giovani italiani, di vivere una condizione di svantaggio in termini di investimenti, spazi e opportunità rispetto sia alle generazioni precedenti sia ai coetanei degli altri paesi sviluppati. Alla classe dirigente italiana, in particolare a quella politica, viene assegnata la principale responsabilità della combinazione al ribasso dei tassi di crescita del paese, dei tassi di occupazione giovanile, dei salari, del proprio futuro previdenziale.
I dati del Rapporto giovani mostrano chiaramente come l’incapacità della politica sia messa al primo posto delle cause dell’attuale difficile condizione dei giovani, seguita a distanza dall’egoismo delle vecchie generazioni (non verso i propri genitori, gli unici da cui ottengono sostegno concreto, anche se spesso più come protezione passiva che come vero incentivo all’intraprendenza). Sul lato di ciò invece che è debole come risposta per migliorare la propria condizione, gli intervistati indicano i giovani stessi che dovrebbero lottare di più per far cambiare le cose, ma ancor di più forme di rappresentanza collettiva (meno dell’8% pensa che non serva).

Cosa e chi può, secondo la visione dei giovani, incidere sul loro futuro lavorativo? La sola intraprendenza personale non è considerata di per sé sufficiente. Le leve più rilevanti per migliorare le opportunità di lavoro le hanno in mano, secondo gli intervistati, le aziende e del governo.  Poco più del 70% ritiene che il governo (attraverso le politiche pubbliche) e le aziende (attraverso strategie e investimenti) siano in grado di incidere sull’espansione e la qualità dell’occupazione. Questo dato sembra solo apparentemente in contraddizione con la grande sfiducia che i giovani dichiarano nei confronti della politica e sulla sua capacità di migliorare le condizioni delle nuove generazioni. Tale sfiducia deriva infatti proprio dalle inadempienze e dalla scarsa efficacia dell’azione politica verso i giovani e il futuro del Paese. Per più della metà del campione (51,6%) i sindacati, attraverso le loro azioni e il loro ruolo, possono avere un ruolo positivo nel favorire la realizzazione di tali politiche.

Di fronte ad un quadro presente di lavoro che manca (e che spesso è precario e di bassa qualità) e ad un quadro futuro di lavoro che cambia (con annesse nuove opportunità ma anche nuovi rischi) è interessante osservare come i giovani intervistati dichiarino un bisogno di rappresentanza collettiva.
Coloro che ritengono che nessuna possibilità di rappresentanza a favore dei giovani sia possibile risultano una stretta minoranza (8,8%). Il 15,1% pensa che sia possibile all’estero ma non in Italia. La grande maggioranza esprime quindi una domanda che attualmente non trova piena risposta, ma si divide anche sulle modalità e sugli attori che potrebbero “catalizzarla”. Per poco più del 12% è utile trovarsi uniti occasionalmente su obiettivi specifici. Per più dei due terzi è invece necessaria una struttura organizzata attorno a cui aggregare questo bisogno. Tra questi ultimi, la metà pensa che la forma più adatta possa arrivare da un rinnovamento degli attuali sindacati  (31,7%), mentre per l’altra metà (sempre 31,7%) servirebbero nuovi sindacati, capaci di superare i limiti di quelli attuali nel rispondere alle nuove esigenze del mercato del lavoro e alle istanze specifiche delle nuove generazioni.

Interrogati sul ruolo che dovrebbero avere i giovani nel sindacato, più della metà afferma come sia fondamentale favorire una loro presenza con un ruolo attivo.

Le riserve nei confronti delle attuali forze sociali hanno differenti motivazioni per i giovani intervistati. C’è chi pensa (una piccola parte, il 13,6% degli intervistati), che i sindacati non siamo mai stati utili e non possano esserlo neanche adesso. Chi, all’opposto, li considera positivamente senza riserve è il 18,2%.  Poco più di uno su cinque (20,9%) li ritiene oggi utili ma con attenzione rivolta alle generazioni più mature e ai pensionati. La gran parte (47,3%) ne riconosce l’utilità passata, ma ritiene he al giorno d’oggi serva un forte rinnovamento per rispondere alla forte richiesta di rappresentanza espressa dalle nuove generazioni.

Passando a considerare cosa, in concreto e in senso propositivo, potrebbe migliorare la visione e l’azione attuale del sindacato, gli intervistati evidenziano come la risposta a specifiche esigenze “personali” non rappresenti l’esigenza predominante. L’aiuto alla possibilità di far carriera è infatti indicata solo dall’8,3 % degli intervistati, mentre la tutela del posto del lavoro e le condizioni personali è segnalato dal 17,4%. Anche le azioni nei riguardi dell’azienda o organizzazione in cui si lavora raccoglie consensi rilevanti ma limitati (9,9%).
Molto più importante risulta la possibilità che il sindacato possa fornire servizi utili ai lavoratori (19,7%), come quelli fiscali o relativi a certificazioni e pratiche varie. A tal proposito va ricordata la rilevante quota di giovani che ha rapporti con il sindacato essenzialmente perché fruisce di servizi erogati dal sindacato stesso. Questo tipo di servizi sono considerati importanti e sono un punto di riferimento positivamente riconosciuto per i lavoratori. C’è però un aspetto ancora più importante, che emerge in modo chiaro dalla ricerca, che potrebbe fare la differenza tra un sindacato che ha una funzione strumentale (a cui rivolgersi occasionalmente per un bisogno personale o per il disbrigo di una pratica) e un sindacato che rappresenti un’istituzione in grado, invece, di porsi in modo credibile e autentico nei confronti delle nuove generazioni, come soggetto rappresentante  di interessi collettivi e in grado di mettere i lavoratori in sintonia con il mondo che cambia. Tale aspetto è connesso alla capacità del sindacato di operare, nei luoghi opportuni e sui tavoli politici, per favorire e rafforzare le condizioni di lavoro in generale. Il 44,7% dei giovani che hanno partecipato alla rilevazione, indica questa funzione, più che le azioni di interesse e utilità personale o per la propria azienda, come quella che più di ogni altra migliorerebbe la propria visione del sindacato. Anche in questo caso è possibile rilevare un legame con il livello di istruzione. Chi ha bassa formazione tende a dare più importanza al sindacato come istituzione che tutela il proprio posto di lavoro (indica tale voce il 20,3 di chi si è fermato alla scuola dell’obbligo contro il 15,3 dei laureati). Al contrario, chi ha un titolo di studio più elevato tende maggiormente a esprimere una domanda di una istituzione in grado di migliorare le condizioni di lavoro in generale (48,3% contro 41,5% per ha titolo più basso). In ogni caso anche tra chi si è fermato solo alla scuola dell’obbligo il consenso verso un’azione di miglioramento delle condizioni generali delle nuove generazioni risulta doppia rispetto a chi limita il ruolo del sindacato alla difesa e alla tutela di chi ha già un lavoro.