di Lidia Baratta

Linkiesta

 

Gli ultimi dati diffusi dal ministero del Lavoro non lasciano dubbi: oltre un milione di lavoratori è stato licenziato l’anno scorso, quasi 330mila solo negli ultimi tre mesi del 2012. La situazione occupazionale è in netto peggioramento, con un aumento della perdita dei posti di lavoro del 15 per cento rispetto al 2011. Il risultato è che il 28,4% degli italiani (dati Istat) è a rischio povertà. A esser penalizzati sono soprattutto i giovani, tra difficoltà lavorative e redditi che calano a picco nel corso degli anni. Non è un caso forse che, come emerge da una recente indagine condotta da Ipsos, i ragazzi tra i 25 e i 35 anni guardino al futuro con molta preoccupazione. A peggiorare la situazione, c’è una sfiducia generalizzata nei confronti della politica, considerata incapace di dare risposte adeguate al disagio crescente: per quasi il 60% degli italiani (giovani e adulti) il sistema del welfare nostrano non offre una buona copertura dei rischi né contribuisce a ridurre le differenze sociali. Ma perché le politiche sociali non risultano adeguate? «Basta guardare la ripartizione della spesa», risponde Alessandro Rosina, docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano e autore del libro L’Italia che non cresce. Gli alibi di un Paese immobile, «ci sono lacune che confermano le difficoltà di giovani e famiglie. La famiglia è ancora l’unico vero ammortizzatore sociale, ma anche questa istituzione è in difficoltà».

 

Professore, quali sono le principali carenze del sistema di welfare italiano?


Bisogna guardare com’è ripartita la spesa sociale italiana rispetto agli altri Paesi. Per pensioni e sanità, siamo in linea con gli altri, le carenze emergono invece nelle politiche per giovani e famiglie. La spesa è molto bassa negli aiuti alle famiglie con figli, soprattutto con più di due figli, e nelle politiche che riguardano i giovani. Dalle politiche attive per il lavoro, per inserirsi meglio nel mercato, all’housing sociale, con i costi degli affitti calmierati, la spesa risulta carente. Sono lacune che mettono in difficoltà giovani e famiglie. La famiglia resta ancora l’unico vero ammortizzatore sociale per i giovani, ma ora anche questa istituzione è in difficoltà. Per fare un paragone, basta guardare alle politiche familiari messe in atto in Francia, sia con governi di destra sia di sinistra. L’investimento francese in questa voce è sempre stato alto, sia in una situazione di crisi sia no.

 

Eppure la cultura cattolica italiana si fonda proprio sulla famiglia come entità che dà stabilità sociale.

Con i principi noi italiani siamo bravissimi. Ma sulle cose concrete che funzionano non siamo per nulla bravi. Basti pensare che all’articolo 1 della nostra Costituzione c’è scritto che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e poi abbiamo i tassi di occupazione più bassi d’Europa. In Francia, le politiche familiari sono prioritarie perché c’è l’idea che aiutare le famiglie significa aiutare anche le future generazioni: i figli hanno un valore sociale che permette alla società di crescere meglio e di essere in grado di pagare anche le politiche per l’invecchiamento. In Italia invece i figli sono un bene privato, sono i genitori che danno loro il successo nella vita. Il figlio l’hai fatto tu e te ne prendi cura tu. E questo deriva dalla visione degli stessi genitori italiani che vedono i figli come un prolungamento di se stessi. Per i genitori è un piacere dire che il successo dei propri figli dipende dai loro sacrifici, è un piacere sapere che sono artefici del destino dei propri figli.

 

La famiglia, quindi, nonostante tutto resta una base sociale importante. Come si dice di solito, l’unico “vero ammortizzatore sociale”.


La famiglia resta una base di partenza importante. Chi ha una famiglia forte alle spalle, supera gli ostacoli. Chi non ce l’ha non li supera. Lo dice anche l’Ocse in una delle sue ultime ricerche: il successo dei giovani in Italia è legato molto alle caratteristiche dei genitori più che alla persona stessa. Da qui deriva una scarsa mobilità sociale. Che si può vedere anche per quanto riguarda i titoli di studio delle famiglie e quelli dei figli. Le politiche per lo studio, rispetto a quelle messe in atto all’estero, nel nostro Paese sono molto scarse. Per questo il destino dei giovani è vincolato ancora alle caratteristiche delle famiglie.

 

La risposta di tutti è che in un momento di difficoltà come questo le politiche sociali sono un costo che non si può sostenere.


Non è vero. Il welfare ha in sé una parte che è costo, che va tagliata, ma dall’altra parte è anche investimento e questo deve essere incentivato. Pensiamo alle politiche di conciliazione lavoro-famiglia. Gli asili nido non sono un costo, sono un investimento, perché fanno sì che le donne non abbandonino il lavoro portando le famiglie in uno stato di povertà. Famiglie che poi richiederanno politiche sociali di assistenza e che quindi rappresenteranno un costo per lo Stato. La costruzione di asili nido non è una politica di genere, ma una politica che riguarda la società intera. Pensiamo anche alle donne che hanno avviato un’impresa e che per carenza di servizi sono costrette ad abbandonare la propria attività. È lavoro buttato via. Si pensa di risparmiare non costruendo asili nido e invece non si pensa che investendo negli asili ci saranno più donne che lavorano, quindi maggiore ricchezza e minore richiesta di politiche sociali di tipo assistenziale. Un altro esempio sono i neet (Not in Education, Employment or Training, ndr), i giovani che non studiano e non lavorano: se fossero integrati nel tessuto sociale e produttivo, contribuirebbero a fare crescere il pil italiano del 2 per cento. Una politica di investimento nel mondo del lavoro per i ragazzi sarebbe lungimirante.

 

Questo presuppone politiche con una visione di lungo termine e non emergenziale.


Certo. Invece la nostra politica ha una visione statica: si pensa a quanti soldi ho e dove posso risparmiare. Con una visione dinamica, invece, so che se spendo un euro oggi, in futuro possono diventare due.

 

Si può arrivare a una copertura ottimale solo con il welfare pubblico o serve un mix tra pubblico e privato?


Serve un welfare mix. Il pubblico non può ritirarsi dall’investire in politiche sociali. Deve investire meglio e coinvolgere le risorse disponibili anche nel privato, per esempio nel terzo settore e nel mondo sociale, continuando ad avere un ruolo di regia nel welfare. Questa è una discussione che si sta facendo in molti Paesi europei. La spesa pubblica è aumentata ovunque, ovunque lo Stato fa fatica a coprire da solo la spesa per il welfare.

 

Ma come si può pretendere che i giovani abbiano per esempio i soldi per una previdenza integrativa privata quando non hanno uno stipendio sufficiente per l’affitto della casa?


Il metodo pensionistico contributivo introdotto dalla riforma Fornero era necessario. Altrimenti saltava tutto il sistema. Ma si è fatto questo passaggio riversando tutto il peso sulle nuove generazioni. Solo con il sistema contributivo la pensione sarà molto bassa. Senza contare che alcuni restano con il sistema retributivo, che garantisce una pensione molto più consistente rispetto al sistema contributivo. Ma le giovani generazioni che lavorano oggi pagano le tasse anche per pagare le pensioni di quelli che vanno in pensione con il sistema retributivo. Il contributivo garantisce una pensione bassa, da fame, che dovrà certamente essere integrata con altri soldi per garantire sussistenza. Ma se i giovani hanno una carriera discontinua e precaria e stipendi bassi, certo non possono pensare anche ad affinacare una pensione integrativa privata a quella pubblica.

 

Allora quali sono le misure più urgenti da attuare?

Anzitutto la riforma dei centri per l’impiego, perché garantiscano percorsi di formazione e ricollocamento lavorativo, e poi un sostegno al reddito adeguato. Che non significa un reddito minimo incondizionato, ma un sostegno al reddito unito a politiche di ricollocamento, meno lunghe e meno passive. È una cosa che ci chiede l’Europa.

 

Perché i centri per l’impiego oggi non funzionano?


Serve un impegno verso un percorso che aiuti il lavoratore a formarsi. Ma spesso gli stessi addetti di questi centri non hanno la formazione giusta per dare un aiuto effettivo. Non si possono fare solo e sempre i famosi corsi di informatica generale. In Italia i centri per l’impiego sono come le sale d’attesa delle stazioni ferroviarie: se perdi il treno, aspetti in sala d’attesa, leggi il giornale e poi sali sul treno successivo. I centri per l’impiego invece dovrebbero essere come i pit stop della Formula 1: ti fermi per cambiare le gomme, per fare benzina, e quando entri in circuito sei più forte di prima. Il momento di fermo in questo modo serve a potenziare il lavoratore.

 

Nello stesso tempo, bisogna pensare anche ai lavoratori anziani. L’aspettativa di vita cresce e anche l’età pensionabile. 


Servono politiche per l’invecchiamento attivo. La questione non è tanto spostare l’età del pensionamento, ma come migliorare il tasso di attività in età matura. La sfida all’invecchiamento si vince costruendo un sistema sociale e produttivo nel quale sia conveniente rimanere attivi più a lungo. Bisogna ridurre il rischio di obsolescenza attraverso l’aggiornamento continuo, ricalibrare le mansioni e i tempi di lavoro. Non si possono obbligare i 60enni a lavorare come quando avevano 40 anni. Si deve favorire la possibilità di creare attività proprie anche a 60 anni, cambiare attività di lavoro, dare l’opportunità di diventare imprenditori anche da giovani anziani.