di Alessandro Rosina da Vita e Pensiero
Giovani in movimento: una generazione che non vuole sentirsi irrilevante nel proprio tempo
01.01.1970

di Alessandro Rosina
Tutt’altro che apatici o indifferenti, i giovani della Generazione Z stanno mostrando, in molte parti del mondo, un protagonismo crescente. Le piazze che si sono riempite recentemente in Paesi tra loro lontani – dal Nepal al Marocco, dal Madagascar al Perù – raccontano la stessa storia di fondo: quella di una generazione che rifiuta di sentirsi irrilevante, che chiede di contare e di essere riconosciuta come soggetto attivo nel determinare il proprio futuro.
A muoverli non è soltanto l’indignazione per un singolo evento o per una specifica ingiustizia. È la percezione di vivere in un mondo che non li rappresenta, governato da una classe dirigente senza visione, più impegnata a conservare se stessa che a costruire orizzonti condivisi. Ovunque emerge la sensazione che il futuro stia prendendo una direzione sbagliata – nelle disuguaglianze, nella corruzione, nella crisi ambientale e nei conflitti – e che chi ha il potere non stia agendo con la responsabilità necessaria verso chi verrà dopo.
Non chiedono soltanto migliori condizioni materiali, ma la possibilità di essere considerati attori rilevanti, capaci di incidere su decisioni che oggi vengono prese altrove. Vogliono contare, contribuire, dare un’impronta a questo secolo che sentono come proprio. La Generazione Z è la prima nata e cresciuta interamente nel XXI secolo, un tempo – come costantemente rilevato dalle ricerche dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo – che sente di voler abitare e arricchire con le proprie idee e la propria sensibilità.
È anche una generazione segnata da una duplice fonte di incertezza: quella globale – legata al clima, ai conflitti, all’impatto delle nuove tecnologie e al futuro del lavoro – e quella locale, legata alle condizioni concrete in cui vive: disoccupazione, salari bassi, servizi carenti, inaffidabilità della politica. A tutto questo i giovani reagiscono cercando di uscire dalla condizione di marginalità in cui si sentono relegati, una condizione che alimenta senso di impotenza e di irrilevanza. La mobilitazione diventa così un modo per ritrovare voce, autostima e senso di efficacia collettiva.
Pur nelle differenze dei contesti nazionali, queste proteste condividono tratti comuni che appartengono alla cultura globale della Gen Z. È una generazione cresciuta con (e nei) social network, abituata a confrontarsi con coetanei di ogni parte del mondo e a formarsi aspettative elevate su ciò che il proprio Paese dovrebbe offrire. Le reti digitali non solo amplificano la consapevolezza del divario tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, ma permettono anche di trasformare il malessere diffuso in energia coordinata, capace di organizzarsi e diffondersi rapidamente.
Spesso basta un “pretesto mobilitante”: la censura dei social in Nepal, la costruzione di stadi anziché ospedali in Marocco, i continui blackout elettrici in Madagascar. Ma dietro ogni scintilla c’è un accumulo di frustrazione e di ingiustizia non ascoltata.
In queste piazze, la mobilitazione assume un duplice significato. Da un lato è rivendicazione di una questione concreta, che non sempre trova risposta adeguata; dall’altro è una forma di sperimentazione di cittadinanza, un modo per mettersi alla prova come soggetto politico collettivo. I giovani che manifestano non chiedono solo soluzioni, ma riconoscimento. Con le loro proteste esprimono il bisogno di essere parte di un mondo che non li escluda dalle decisioni che li riguardano. È un passaggio cruciale: dalla rassegnazione all’azione, dal sentirsi spettatori al diventare protagonisti.
In un’epoca segnata da crisi multiple – climatiche, economiche, geopolitiche – e da leadership deboli, la generazione più giovane rappresenta forse la componente più lucida nel percepire la distanza tra la politica che difende l’esistente e quella che dovrebbe aprire possibilità nuove. Le loro manifestazioni non sono solo una reazione al disagio, ma un tentativo di rimettere in moto la storia contribuendo a darle una direzione.
Questa tensione si inserisce dentro un quadro più ampio di logoramento delle istituzioni rappresentative e di crescente disillusione verso i meccanismi tradizionali di partecipazione. Le democrazie appaiono spesso incapaci di tradurre in azione collettiva le aspettative delle nuove generazioni, che percepiscono un divario crescente tra la promessa di cittadinanza attiva e la realtà di un sistema bloccato. È proprio in questo spazio di sfiducia che la Gen Z tenta di reinventare le forme di impegno, sperimentando nuove modalità di partecipazione – ibride, digitali, transnazionali – che cercano di coniugare etica, efficacia e senso di appartenenza.
L’azione collettiva giovanile è quindi anche una reazione più profonda al rischio di un passaggio storico dal mondo delle grandi democrazie a quello delle grandi potenze: un mondo in cui non prevalgono più valori condivisi e regole multilaterali, ma logiche di forza, sovranità, controllo delle tecnologie e capacità d’influenza. Il XXI secolo segna così il ritorno della politica di potenza dentro la globalizzazione, con tutti i paradossi che ne derivano: un mondo interdipendente ma diviso, iperconnesso ma frammentato.
Nelle loro voci non c’è soltanto contestazione, ma l’implicita domanda di un nuovo patto tra generazioni, fondato sulla responsabilità reciproca e sulla speranza che un futuro migliore sia ancora possibile e possa essere costruito insieme.





