Annalisa PellegrinoAlla voce “nazionalità”, sul passaporto c’è scritto “italiana”, vicino a una data di nascita che ultimamente suona come una sentenza. Annalisa è giovane, è nata e cresciuta in Italia, e vive all’estero. Prima di sprofondare nella retorica del “cervello in fuga”, però, val la pena fare una precisione.

Annalisa Pellegrino è una dei vincitori del Fellowship Program UNOG, un’iniziativa promossa dall’Istituto G. Toniolo e giunta ora alla seconda edizione. Il programma è rivolto agli studenti laureati (e laureandi) all’Università Cattolica che sognano la carriera diplomatica. A loro viene offerta l’opportunità di fare uno stage presso gli uffici ginevrini della Missione Permanente della Santa Sede, presso le Nazioni Unite. Annalisa è arrivata a Ginevra a febbraio, dopo tanti viaggi che l’hanno portata in giro per il mondo, e le hanno rivelato a poco a poco quale sarebbe stata la sua strada.

Come è nata la tua passione per l’ambito delle relazioni diplomatiche?

È nato tutto al liceo. Ho partecipato a un concorso provinciale che aveva come premio un viaggio di studio all’estero: ho vinto, e sono volata in Russia e in Ucraina. L’anno successivo ho accompagnato i vincitori della nuova edizione e ho aiutato a organizzare il viaggio, che ci avrebbe portato in Israele. Queste prime esperienze mi hanno aperto gli occhi sul mondo delle relazioni internazionali, anche grazie a una serie di incontri a cui ho partecipato. All’università poi ho fatto la triennale in Cattolica in Lingue per le relazioni internazionali –dove ho studiato arabo, la mia grande passione –, e la specialistica (sempre in Cattolica) in Scienze politiche per le relazioni internazionali.

Di cosa ti occupi all’Onu?

Lavorando con la Missione della Santa Sede posso seguire diverse agenzie internazionali. In questi giorni ad esempio sto seguendo il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, ma mi sono occupata anche di donne, sanità, commercio, politiche per lo sviluppo, proprietà intellettuale… è un panorama molto ampio. Nello specifico, il mio lavoro si divide in una parte “di ufficio”, in cui svolgo delle ricerche su diversi temi, e in un’altra in cui seguo vari comitati o incontri all’Onu, per i quali scrivo una serie di rapporti che vanno poi inviati a Roma. Tutto questo mi dà la possibilità di confrontarmi con realtà molto diverse e di tenermi aggiornata, in un certo senso si continua sempre a studiare.

C’è un’area del mondo a cui ti senti particolarmente legata?

Amo molto il Medio Oriente, proprio perché ho approfondito la studio della lingua e della cultura araba, oltre che della religione islamica. In questo momento, in particolare, mi sento molto coinvolta nella “questione” siriana: ho vissuto a Damasco per un breve periodo nel 2010, ed è stata un’esperienza bellissima. Ho avuto la fortuna di girare tutto il Paese poco prima che scoppiasse la crisi: ho visitato città come Aleppo, Homs, Palmira, ho trovato luoghi stupendi e una popolazione accogliente. Nonostante tutti i problemi della Siria di allora, in primis la dittatura di Bashar al-Assad, ho potuto apprezzare l’equilibrio prezioso che c’era fra le varie comunità religiose. Ho tanti ricordi di cene con musulmani e cristiani nel quartiere cristiano di Damasco, e viceversa. La famiglia che mi ha ospitato si trova ancora lì: hanno molta paura e non sanno bene che cosa succederà, hanno tentato di scappare ma purtroppo non è stato possibile.

Quali sono gli aspetti che ti hanno colpito di più, di questa tua esperienza alle Nazioni Unite?

L’ambiente dell’Onu è stata una grande rivelazione. Per me è un’emozione indescrivibile poter assistere a queste assemblee: immaginatevi com’è arrivare dall’università e trovarsi al Consiglio per i Diritti Umani, dove si tiene un dibattito di altissimo livello. D’altro canto, all’inizio subentra anche una sorta di delusione, perché quando uno arriva la prima volta è molto idealista, vorrebbe vedere le cose cambiare, vorrebbe vedere gli Stati che prendono posizioni nette su determinate questioni. Invece ci si scontra con la politica, che è fatta anche di compromessi, e a volte si ha l’impressione che si parli tanto ma senza fare davvero qualcosa. L’aspetto interessante della mia esperienza all’Onu è che dalla commistione tra queste emozioni contrastanti è nato un approccio più realista. Ho capito che non si cambia il mondo dall’oggi al domani, e che dietro ai discorsi “ufficiali” c’è tutto un lavoro diplomatico paziente, lungo e magari meno evidente, che però nel tempo cerca davvero di migliorare la situazione. Per questo dico che per me è fondamentale il rapporto con le persone che ho incontrato nella Missione: sono dei grandi maestri, che mi hanno insegnato come  stare davanti a queste contraddizioni senza rimanerne schiacciata.

Cosa significa fare relazioni diplomatiche in una delegazione vaticana? C’è un valore aggiunto?

Quando si lavora nella delegazione di uno Stato, la prospettiva è sempre relativa agli interessi di quell’area, ai rapporti privilegiati con i partner politici o commerciali con cui bisogna trattare. Raramente – a meno di progetti particolari – si alza un po’ la testa. La Chiesa cattolica invece è un’entità davvero universale, una realtà con cui ogni Paese bene o male si deve confrontare: questo ci dà la possibilità di sviluppare una relazione diversa, e più diretta, con tutti gli altri Stati. E poi resta il fatto che il Papa ha una visibilità enorme sull’arena internazionale. Da parte mia penso che la Chiesa abbia una posizione privilegiata nel tentare di risolvere pacificamente i conflitti, proprio per questo ruolo di ponte che ha sempre avuto.

Non pensi che potrebbe essere un ostacolo, nelle tue future relazioni con il mondo arabo e islamico?

Personalmente la vedo in un modo diverso. Innanzitutto io non posso “togliermi di dosso” la mia identità: il solo fatto di essere occidentale, ad esempio, ce l’ho scritto sul passaporto, e questo sarà sempre determinante nei miei rapporti con il mondo musulmano, e in generale con quello mediorientale. In realtà penso che proprio la mia appartenenza alla Chiesa cattolica mi abbia aiutata a non chiudermi su posizioni integraliste. Anzi, mi ha spinto a studiare approfonditamente la religione musulmana, la storia, la letteratura e tutta la ricchezza del patrimonio islamico, che tanto mi ha insegnato anche rispetto alla mia fede. Nel rapporto con gli amici musulmani, l’essere chiara e limpida sulla mia appartenenza alla Chiesa mi ha consentito di aprirmi di più all’altro e di esserne accolta, e ho in mente delle amicizie precise mentre lo dico. Penso a una compagna di corso musulmana, a molti ragazzi che ho conosciuto al Cairo, al mio professore siriano: non è mai stato un limite, è stato un vantaggio.