«In questi anni diversi studi compresi quelli promossi dall’Istituto Toniolo, ai quali ho avuto modo di partecipare direttamente, hanno descritto ampiamente il modo con cui in Italia è vissuto il rapporto con la Chiesa cattolica e la fede cristiana. Ha ben sintetizzato tale scenario Pier Giorgio Gawronski, nell’articolo del 22 febbraio scorso.

L’orizzonte culturale non è più da molto tempo quello del cattolicesimo; la maggior parte delle persone nella gestione della loro quotidianità ordinaria non fa riferimento ai riti, ai linguaggi, ai tempi della vita ecclesiale; nell’interpretazione della realtà e nelle decisioni i primi riferimenti culturali non sono quelli della fede cristiana.

Sebbene vi siano differenze tra i territori (nord – centro – sud; contesti urbani, piccoli centri, paesi), l’appartenenza alla vita ecclesiale, al di là di una superficiale adesione al cristianesimo come dato identitario nazionale, si va frammentando, l’adesione intellettuale è debole, la stessa conoscenza dei fatti e dei concetti fondamentali del cattolicesimo è molto bassa. Anche la fiducia, purtroppo, risulta fragile e nei giovani solo una minoranza ritiene la Chiesa affidabile».

Sono queste le parole di Pierpaolo Triani,  membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, docente di Pedagogia generale all’ Università Cattolica del Sacro Cuore, in un più ampio servizio pubblicato dall’Osservatore Romano dal titolo Il desiderio fondante.

E aggiunge:  «Il tempo della pandemia ha fatto emergere con più chiarezza quanto sia radicata la secolarizzazione, ma anche quanto il Vangelo sia all’opera. Ha messo maggiormente in luce le fragilità delle comunità ecclesiali, come di tutte le altre realtà comprese le nostre fragilità personali e familiari; ha evidenziato il distacco e l’indifferenza di molti. Nello stesso tempo si è potuta constatare la generatività della vita ecclesiale, quando è rimasto vivo il desiderio fondante di condividere con gli altri il dono del Vangelo che è stato ricevuto. Durante i mesi più duri del lockdown, le comunità che hanno retto maggiormente di fronte alla drammaticità delle situazioni (si pensi soltanto all’ impossibilità del commiato ai defunti) e all’inedito, sono quelle che non hanno smesso, di coltivare, seppure in forma diversa, l’essenziale: la cura delle relazioni, i momenti di preghiera insieme; il ritrovarsi (seppure a distanza) attorno alla celebrazione eucaristica, l’attivazione nei confronti dei bisogni sociali ed economici delle persone».

Qui l’articolo completo su L’Osservatore Romano – 4 luglio