[© StephenMitchell / CC BY-NC-ND 2.0]
StephenMitchell / CC BY-NC-ND 2.0]
Come noto, è cambiata tra i giovani la percezione dell’emigrazione. Salvo rare eccezioni, nessuno dei nostri connazionali che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sbarcava a Ellis Island si metteva in marcia con grande entusiasmo: lo stomaco vuoto era il motore principale che spingeva a impelagarsi –in senso letterale, perché si trattava di una infinita traversata in mare aperto. La realizzazione professionale era un’ambizione che si presentava solo in un secondo tempo, mentre l’urgenza riguardava la sopravvivenza, il tirare a campare in un modo o nell’altro.

Ora le cose per fortuna sono cambiate: l’Europa è in crisi ma in linea generale non è affamata. Anche l’Italia, pur con tutte le sue difficoltà, ha saputo costruire negli anni un sufficiente sistema di welfare state, che può consentire a chiunque di vivere un’esistenza quantomeno dignitosa.

E allora perché i ragazzi spesso vogliono andare oltre la soglia dello Stivale? Perché appunto si tratta di un viaggio di scoperta più che di un’emigrazione, di un rincorrere l’idealità più che la contingenza dei bisogni. Questo stato di cose è ben riassunto nelle pagine del Rapporto Giovani: «La scarsa attenzione ai meriti e alle competenze individuali si nutre della narrazione della “fuga” all’estero, alla ricerca di nuove possibilità di autorealizzazione».

Il 43% degli intervistati è interessato al trasferimento fuori dai confini nazionali. Una percentuale sicuramente significativa.

Ma per ottenere poi che cosa? Questa è la domanda principale da porsi, perché la storia – vera – che vi raccontiamo ora ha tutta l’aria, purtroppo, di non essere un caso isolato. Apprendiamo dal programma televisivo australiano “Four Corners” – la cui inchiesta è stata ripresa dal Corriere della Sera – che molti tra i nostri concittadini, partiti carichi di speranze verso il lato opposto del pianeta, si sono ritrovati a sgobbare in condizioni di schiavitù nelle piantagioni dell’Australia.

Costretti a lavorare con orari estenuanti e sottopagati, diventano anche bersaglio di molestie e perfino di abusi sessuali. Il motivo è che, per ottenere il rinnovo del visto per il secondo anno, gli immigrati temporanei devono dimostrare di aver lavorato per tre mesi nelle zone rurali del Paese. Questa clausola li rende facilmente vulnerabili a ricatti e truffe.

Al momento sono oltre 15.000 i giovani compatrioti presenti nel “Nuovissimo Continente”. «In un solo anno ho raccolto 250 segnalazioni sulle condizioni che si trovano ad affrontare», spiega Mariangela Stagnitti, presidente del Comitato italiani all’estero di Brisbane. «Alcune erano terribili». Come quelle di due ragazze in un’azienda che produceva cipolle rosse: turni dalle sette di sera alle sei del mattino, senza pause neanche per andare in bagno. Il tutto, spesso, senza alcuna copertura assicurativa.

Queste 250 lamentele sono appena una goccia nell’Oceania, perché in pochissimi finora hanno trovato il coraggio di denunciare lo sfruttamento al Dipartimento per l’Immigrazione. «Tanti mi dicono che ormai sono abituati», prosegue la Stagnatti. «Anche in Italia, quando riuscivano a lavorare, lo facevano spesso in nero e sottopagati». Così finiscono per fare quei lavori che gli indigeni non vogliono più fare.

La soluzione che ha in mente il Governo australiano per tamponare questa ferita non è, francamente, un granché: si è limitato ad annunciare la modifica del regolamento, per cui la forma di volontariato nelle aziende agricole in cambio di vitto e alloggio non darà più la possibilità del rinnovo per il secondo anno.

E per quelli che vogliono rimanere in Australia, che si fa? Non resta che convenire su un punto: le spiagge del più grande Paese dell’Oceania sono un paradiso. Le piantagioni, di contro, sono un inferno.

Francesco Mattana