“Spesso anche la disponibilità ad adattarsi ad ogni lavoro non permette ai giovani di raggiungere l’indipendenza economica e di avere i mezzi sufficienti per formarsi una famiglia. Il fenomeno dei lavoratori poveri, perché sottopagati e/o precari oltre a costituire un grave problema sociale, è un rilevante fattore diseconomico che si ripercuote negativamente sulla domanda interna  e contribuisce a ritardare la ripresa”. Lo dice Gianni Bottalico, vicepresidente nazionale delle Acli. Già dirigente provinciale del Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana, dal 2004 al 2012 è stato presidente delle Acli milanesi.

 

 

L’INTERVISTA

 

1) Il cardinale Angelo Scola ha rilanciato la fase 2 del Fondo Famiglia Lavoro. L’emergenza non è affatto rientrata. Qual è la fascia più in difficoltà?

 

 Che l’emergenza non sia rientrata lo dicono, ahimè, tutte le ricerche che continuano a segnalare perdita di posti di lavoro, aumento della disoccupazione con dei picchi preoccupanti per quella giovanile, erosione che appare inarrestabile, del risparmio delle famiglie, riduzione considerevole del loro tenore di vita. Il ceto medio continua ad impoverirsi e su questo non si è riflettuto abbastanza, soprattutto la politica fatica a valutare l’impatto di tale fenomeno in termini economici, sociali e di tenuta per la democrazia e la pace.A riportare l’attenzione su questi temi ha contribuito nel 2008 la lungimirante intuizione del cardinal Tettamanzi di istituire il Fondo Famiglia Lavoro che oggi il suo successore, l’Arcivescovo cardinal Angelo Scola, ha deciso di proseguire puntando, non a caso soprattutto sulla formazione professionale e sul sostegno all’avvio di nuove attività lavorative.Oggi la fascia di giovani più in difficoltà è quella appartenente ai segmenti più bassi del ceto medio:  questi ragazzi la crisi la pagano due volte, con meno risorse (familiari e pubbliche) a disposizione per la loro formazione e con meno opportunità di buon lavoro, a parità di capacità, dei loro colleghi appartenenti alle fasce sociali privilegiate.

 

2) I giovani, nonostante il tasso di disoccupazione non diminuisca, non mollano e continuano a crederci, pur di non rimanere disoccupati si adeguano a lavori non corrispondenti al titolo di studio e al percorso formativo e si adeguano a salari bassi. Cosa si deve chiedere al Paese per un cambiamento profondo? Cosa, in concreto, devono fare politica e società per uscire dalla crisi?

 

Va rilevato che sempre più spesso anche la disponibilità ad adattarsi ad ogni lavoro non permette ai giovani di raggiungere l’indipendenza economica e di avere i mezzi sufficienti per formarsi una famiglia. Il fenomeno dei lavoratori poveri, perché sottopagati e/o precari oltre a costituire un grave problema sociale, è un rilevante fattore diseconomico che si ripercuote negativamente sulla domanda interna  e contribuisce a ritardare la ripresa.Di fronte a fenomeni di questo genere dobbiamo adoperarci per fare della crisi attuale una  occasione di “nuova progettualità” come ci invita a fare Benedetto XVI nella Caritas in veritate. Al Paese va chiesto innanzitutto un maggior impegno per lo sviluppo economico e sociale. Occorre ricreare le condizioni nelle quali possano esserci delle reali opportunità di crescita professionale e sociale per tutti, invertendo la crescita delle disuguaglianze e perseguendo la riduzione dei divari sociali che invece negli anni della crisi sono cresciuti ulteriormente, come presupposto per far contare il merito e non solo l’appartenenza. In assenza di ciò le discussioni sul merito non fanno che consacrare i rapporti sociali esistenti a svantaggio della gran massa dei giovani. Lo stato non può comportarsi solo come arbitro ma deve intervenire, come esige la Costituzione (art. 3), per ridurre gli squilibri economici e sociali.Più in generale, credo vada profondamente ripensato il modello economico imperante in questi ultimi decenni. Abbiamo assistito al primato dell’economia sulla politica, ma l’economia reale a sua volta è stata dominata dalla finanza speculativa. Ciò ha divorato risorse ingentissime (paragonabili ai costi delle guerre mondiali) nel salvataggio pubblico degli istituti finanziari, pagato in gran parte con i tagli allo stato sociale in una misura superiore alle riforme che pure quest’ultimo richiedeva. Ed ha comportato, per effetto anche dell’apertura globale del mercato, una sotto-remunerazione del lavoro generalizzata, a favore dei profitti finanziari. In Occidente i salari non sono più sufficienti per una vita dignitosa ed alle masse di nuovi lavoratori dei Paesi emergenti i salari non permettono di comperare ciò che producono. Ma se non si aumenta la domanda interna dando più margini di profitto alle imprese ed ai lavori autonomi, più potere d’acquisto a stipendi e pensioni l’economia tarda a ripartire.

 

 3) Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro?

 

Per prima cosa credo che dovremmo imparare qualcosa dagli errori compiuti, di cui non possiamo sbarazzarci facilmente ma che costituiranno una zavorra sul futuro delle giovani generazioni.Se si guarda ai soli indicatori economici e sociali ed al rimescolamento delle posizioni che sta avvenendo a livello internazionale, se ne trae una sensazione di massima allerta. Tuttavia sta alla politica in situazioni tanto difficili il compito di smussare gli egoismi e di ricondurre situazioni di criticità ad un disegno di bene comune.