Intervista a Monsignor Paul Tighe, segretario del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, che, al Festival del Giornalismo di Perugia ha partecipato all’incontro dal titolo “Cybertecnologia: fede e rivoluzione digitale”. Un aspetto sempre più rilevante, quello dell‘utilizzo dei social network da parte dei giovani, che interroga anche la Chiesa Cattolica.

 

Mons. Tighe, come si può rapportare la fede con la rivoluzione digitale in atto? 

 

Abbiamo capito che per i giovani i mezzi digitali costituiscono una dimensione normale della loro vita, li utilizzano per condividere esperienze ed essere informati. Se la fede non è presente in questo mondo digitale siamo assenti dalla vita di tante persone: più che parlare di una presenza non tanto strumenti da usare, ma un modo di essere presente che è coerente con la dinamica dei social networks.

 

Con l’arrivo di questi ultimi sono infatti cambiate molte cose e anche il modo di imparare e di condividere è cambiato profondamente:  fare delle domande. Forse come Chiesa siamo abituati all’uso del microfono, noi parliamo e loro devono ascoltarci. Questa tentazione esiste sempre, ma sarebbe uno sbaglio: dobbiamo pensare a come rapportarci con quella realtà ed essere pronti a ricevere anche delle domande.  E’ un nuovo modo per essere presenti, ma che è molto spontaneo tra i giovani: condividono la fede  in modo molto naturale, anche per spiegare la speranza che hanno.

 

Credo che sia fondamentale capire che anche i social network sono globali e che ogni paese ha la sua cultura: ad esempio i giovani americani sono quasi evangelici nella loro professione di fede, in Europa invece vige un altro stile. La cosa più importante è non avere paura di condividere la realtà di chi siamo, il nostro modo coerente di esprimere la dimensione della nostra vita.

 

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